lunedì 8 ottobre 2007

LA FAMIGLIA TORSOLI DI MONTICIANO - PARTE III-2

Aligi - 2


Tuttavia l’ozio forzato e la noia che ne consegue, i reticolati, la mancanza di notizie aggiornate dei propri cari, il clima stesso cui gli italiani non erano abituati, sei mesi di sole dardeggiante, sei mesi di pioggia senz’interruzione che trasformava il campo in un pantano. Non libri, non svaghi o diversivi che facessero scordare il triste stato di prigionieri. E’ difficile rimanere normali in queste condizioni e assai facile perdere il controllo dei propri nervi. Ci furono casi di pazzia e suicidio.

A seguito del 25 luglio 1943 e della caduta del regime avvennero poi dolorose discriminazioni fra i prigionieri ritenuti a torto o a ragione simpatizzanti per l’una o l’altra linea politica rendendo ancor più dolorosa la prigionia già umiliante di per sé stessa. Raccontava ancora Umberto Visetti: “Soffrii infinitamente di più per la condotta inqualificabile dei miei connazionali che non per il trattamento dell’avversario che fu sempre corretto verso di me”.
Si giunse anche ad eccessi. Qualche gerarchetto ufficiale di complemento che si era sentito in dovere di criticare l’operato di veri e propri eroi della patria, catturati feriti e con le armi in pugno, quando Mussolini era al potere, cambiarono improvvisamente gabbana incolpando i loro colleghi, per la maggior parte militari di carriera ed estranei alla politica, di non cooperare abbastanza con gli inglesi come antifascisti.

Si sentivano discorsi come quello che segue, discorsi che ben pochi storici e scrittori del dopoguerra hanno avuto il coraggio di riportare. Lo faremo noi:

“Ho coscienza d’aver compiuto il mio dovere sino all’estremo limite del possibile…”
“Non è vero!”.
“Tu non eri là a vedere… La maggior parte dei miei uomini è morta ai pezzi e io pure sono stato raccolto ferito. Come puoi affermare che non ho fatto il mio dovere?”
“Perché non sei morto sul posto”
“E tu perché non sei morto? Perché ti sei imboscato come la maggior parte dei tuoi compari?"

La buona fede di molti fu sorpresa in un’ora particolarmente angosciosa da chi non ebbe scrupolo di buttar la zizzania a piene mani creando confusione e dividendo gli animi quando sarebbe stato sommamente auspicabile, nell’interesse comune, d’esser uniti per affrontare concordi la mala sorte e sollevarsi a vicenda. Si sa che gli avversari fecero leva sulle faziose animosità dei nostri connazionali per indebolirli prima e batterli dopo inesorabilmente. E’ il tragico destino dell’Italia che i suoi figli s’accaniscano a sbranarsi fra loro. Fin dall’antichità, traendo profitto dalle nostre discordie interne, gli stranieri si spartirono le terre bonificate da noi divenendo sempre più ricchi e potenti e finendo col dominarci. Ieri come oggi. Così chi nel campo di prigionia passava per fascista, o antifascista, solo perché era un militare senza predicati politici appariva come facinoroso. Magari era un disgustato al pensiero che in tempo di guerra vi fosse chi si schierava contro la Patria in armi, fosse pure fascista, favorendo così lo straniero intenzionato a strangolare - fascisti o non fascisti che fossero - gli italiani.
Dopo la guerra molti reduci si ritrovarono nell’Associazione dei ‘Canguri’ fra ex prigionieri in terra d’Australia. Molti rapporti interpersonali parvero solo allora sanarsi attraverso franche spiegazioni. Ma non sempre.
Riferiamo un episodio emblematico avvenuto in Italia nel dopoguerra fra due ex del campo di Murchison:
“Avevi ragione tu, mi son ricreduto su tante cose. Quei gerarchi disonesti non pensavano che ad impinguarsi mentre noi ci facevamo ammazzare. Anche tu ti sarai battuto contro i tedeschi..” dice il primo dei due. “Affatto…” replica il secondo che le intricate vicende belliche avevano costretto a sua volta a subire altri pericoli. Al che il suo interlocutore gli sarebbe saltato addosso un’altra volta per picchiarlo come aveva fatto in prigionia. Prima lo odiava perché antifascista, poi perché s’offendeva al semplice sospetto che non lo fosse. Com’è difficile accontentare gli uomini! Eppure erano professionisti colti e di gran cuore !

A migliaia di chilometri, lontani dalla Patria, rinchiusi tra il filo spinato, guardati a vista da aguzzini (in uniformi "alleate'', dal grilletto facile e abilissimi anche con mazze da baseball), gli italiani in prigionia di guerra soffrirono per anni l'inumano trattamento loro riservato. Sparatorie, uccisioni, bastonature che, spesso, portavano alla morte; malattie, assenze di notizie da casa, in totale dispregio delle leggi internazionali dell'Aia.
Ciononostante i nostri POW (prigionieri di guerra= prisoners of war) avevano mantenuto un contegno fiero e dignitoso, come si conviene a soldati di razza.
Nel Texas, in Arizona, in Arkansas, così come in India, nel Kenia, in Egitto, Algeria, nel Sud-Africa, Rhodesia, Marocco, Australia ecc. i giorni, i mesi, gli anni passavano nell'inedia spesso interrotta da pesanti punizioni originate anche da inezie o causate da qualsiasi motivo.

Una nota. “Non cooperatori”. Furono così chiamati da britannici e statunitensi, i campi di concentramento per i prigionieri di guerra italiani che, dopo l'8 settembre 1943, non vollero accettare la collaborazione con loro.
La scelta dei "Non", se in argomento si potessero fare paragoni, fu più significativa e meritoria, perché più difficile della scelta per il ‘nord’ o per il ‘sud’ fatta da chi si trovava in Italia ed aveva, quindi, maggiori elementi di giudizio.
Quel rifiuto di collaborazione col nemico, da parte dei prigionieri di guerra, darebbe legittimazione, se ce ne fosse bisogno, alla decisione di quanti, in Italia, vollero continuare la lotta.
Gli alleati (fra loro, contro di noi) si permisero di chiamare "criminali" i non cooperatori, ergendosi a giudici della Storia; chi non era con loro, era un delinquente. Anche se, poi, dimostrarono, in altri modi, rispetto per il rifiuto di collaborazione.

Aligi rientrò in Italia dopo sei lunghi anni. Ebbe una licenza a Monticiano dove non solo non ritrovò l’antico Palazzo municipale distrutto per rappresaglia dai tedeschi alla fine di giugno 1944 col passaggio del fronte, ma anche tanti amici e conoscenti che aveva incontrato da bambino e da giovanetto prima dell’arruolamento. Poi riprese nuovamente il servizio attivo nel 78° Rgt. f. ‘Lupi di Toscana’ all’atto della sua ricostituzione nel secondo dopoguerra (prima decade di marzo 1947).

Da Tenente Colonnello, ne comandò anche il I Battaglione e ciò spiega un particolare legame affettivo per quel glorioso Reggimento al quale si era dedicato per anni e che aveva avuto alle spalle nei due conflitti un retaggio di eroico sacrificio.

Il Nostro trascorse il primo Natale dopo il ritorno dalla prigionia (Natale 1947) al comando di una compagnia di soldati a guardia della polveriera di Versegge in provincia di Arezzo. Quanta goffaggine talvolta nella burocrazia e nei comandi!.... Aveva trascorso le ultime Feste in famiglia nel 1935 !!.....

Aligi fu promosso Maggiore nel 1949 e Tenente Colonnello nel 1954. Con questo grado frequentò il corso valutativo presso la Scuola di Guerra (Civitavecchia) al termine del quale ebbe la soddisfazione di essere classificato Primo fra gli ufficiali dell’Arma di fanteria e Undicesimo fra quelli di tutto l’esercito.
Soldato saggio e avveduto gli furono affidati incarichi prestigiosi e autorevoli fra cui il già citato comando del I battaglione del 78° Reggimento ‘Lupi di Toscana’, di Capo Ufficio Servizi e Capo Sezione Addestramento dell’Ufficio Operazioni e Addestramento presso il Comando Militare Territoriale della Regione Militare Tosco-Emiliana.

Fu anche Capo Sezione Infrastrutture e in questo periodo fu l’organizzatore dello ‘storico’ progetto per il trasferimento delle strutture site nella Fortezza da Basso in una nuova caserma a Sesto Fiorentino [attuale Direzione d’Artiglieria N.d.A.].

Promosso Colonnello nel 1959 ebbe prima il comando del XIV Deposito Misto (Sede Sulmona), vera e propria Unità di mobilitazione dell’Esercito nell’Italia centrale nonostante la denominazione fuorviante, con tre Sezioni (Spoleto, Foligno e L’Aquila); in Sulmona fu anche Comandante del Presidio. Poi ebbe il comando dell’82° Reggimento di fanteria ‘Torino’ (1961-1962) che si trovava a Villa Opicina presso Trieste con il I Battaglione (il II Battaglione era acquartierato nella frazione di Banne non lontana e il III Battaglione si trovava in città).

All’epoca l’82° Reggimento ‘Torino’ era incondizionatamente uno dei più prestigiosi reparti operativi dell’ Esercito che entrambi i fratelli Alberto e Azzurro ebbero la soddisfazione e l’opportunità di visitare nel 1961. Questo importantissimo comando venne assegnato ad Aligi anche in considerazione degli eccellenti risultati conseguiti al termine del corso valutativo presso la Scuola di Guerra detto poc’anzi.

Alberto, da vecchio ufficiale pratico del mestiere, si compiacque molto constatando che i quadri del reggimento annoveravano ben 150 ufficiali di cui ben 9 erano quelli di rango superiore e che l’organico, pur essendo in tempo di pace, era costantemente mantenuto al cento per cento essendo previsto inoltre un aumento del 10 per cento in caso di effettiva mobilitazione.
Mentre Azzurro si trovava a Trieste - lo abbiamo già ricordato a proposito di questo personaggio - desiderò rivedere insieme al fratello i luoghi dove aveva combattuto negli anni verdi e, accompagnato da Aligi, fu con molta commozione che ritrovò nella campagna carsica il vecchio ponticello in pietra presso il quale, sopraffatto dagli austriaci, era stato costretto a cedere le armi da un avversario decisamente superiore per numero e per mezzi.

Al termine di una quarantennale carriera Aligi Torsoli avrebbe raggiunto i gradi di Generale di Brigata (1966) e di Generale di Divisione (1974) con vari importanti incarichi presso il Comando della Regione Militare Tosco-Emiliana. Fu collocato nella Riserva dal 29 luglio 1976.
Sposato con Maria Bice Ricciardi (1913 †2002), ebbe un figlio, Luigi, nato a San Gimignano nel 1951, scrupoloso conservatore delle memorie di Famiglia.


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